SLK 320
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Le famiglie felici sono tutte felici allo stesso modo, quelle infelici lo sono ognuna in modo diverso. E’ una citazione così ricorrente che la trovo attribuita ogni volta ad autori diversi e neanch’io ricordo più la fonte autentica. Ma la diversità che mi interessa non riguarda la famiglia bensì le città (una grande famiglia, in fondo, la città, no?).
Ogni città infelice ha il suo genere di infelicità, cioè il suo peculiare tipo di traffico. Tutti sanno che il traffico di Napoli è diverso da quello di Milano. Chiunque è capace di raccontarvi un aneddoto sull’anarchia del traffico a Napoli, e sarà comunque un aneddoto simpatico, sempre nuovo, sempre uguale. Quello che non tutti sanno è che ogni regione ha il suo distinto genere di traffico. Ogni provincia, anzi, a volte ogni paese.
I poveri di spirito riescono a distinguere soltanto il traffico disciplinato da quello indisciplinato. Ma quante piccole differenze tra indisciplina e indisciplina. E perfino la disciplina ha i suoi gradi di applicazione, le sue corsie preferenziali, i suoi eccessi. Senza scendere dall’auto, senza scambiare una parola, senza guardare un solo abitante, un vero osservatore può comprendere lo spirito del luogo.
Il guaio è che la questione traffico è sempre stata posta in un solo modo, quello quantitativo: quando si dice traffico si vuol dire troppo traffico, l’oggettiva impossibilità per migliaia di scatolette di transitare sulla stessa scansia. Quando esce un film sul problema del traffico si sa già che film è: è un film sull’ingorgo. Vi ricordate Michael Douglas che scende tranquillo dalla sua auto e incomincia a dar fuori da matto, sempre di più? La causa scatenante era un ingorgo. E chi può esser certo di non dar fuori da matto anche lui, in un ingorgo?
Io, per esempio.
Il fatto è che non potrei mai veramente incazzarmi, in un ingorgo. Con chi prendersela, per una siccità, un nubifragio, un terremoto? Ci sono degli studi, c’è una legge dell’ingorgo, come quelle sui fluidi. Insomma, doversela prendere con l’umanità intera annacqua l’incazzatura.
Ma un singolo stronzo non mi deve far perdere un solo infimo minuto. Anche se non ho fretta, anzi soprattutto se non ho fretta. Perché quando ho fretta sono troppo concentrato sulle vie di fuga per capire. Invece, quando ho solo da finire in scioltezza quei trecento metri, allora guardo, registro, comprendo. E se non fosse per i timpani la testa diventerebbe un lanciafiamme. La materia grigia non è più grigia, è rossa.
Il problema, in questi paesi, è che non dovrebbe esserci problema: anche se tutti hanno la macchina e non perdono occasione di usarla, anche se le strade non sono avenue, anche se la viabilità è insensata (il senso c’è, naturalmente, se senso è non disturbare il comodo parcheggio sotto casa dell’assessore o la direzione del transito nella strada del cognato del vigile) siamo così pochi, qui, che tutto dovrebbe scorrere velocemente.
E invece tutto si blocca di continuo: come non fermarsi a centro strada per salutare o, meglio, per un conciliabolo a finestrino abbassato (che poi a queste latitudini il finestrino può restare abbassato praticamente sempre), perché non fornire indicazioni dettagliate sulla posa delle maioliche al piastrellista che incrociamo andando via da casa? Tu, dietro, vorresti suonare ma hai troppo rispetto per la quiete altrui perciò ti limiti a lampeggiare. Come se i sensi di questa gente potessero davvero avvertire sul momento uno stimolo così soft. I veri problemi, però, cominciano quando finalmente se ne accorgono. Nel migliore dei casi la reazione è lo stupore. Ma come, sto salutando il mio amico, qui, non vedi? (i saluti qui sono una cosa lunga). Due minuti, no? Cosa sono due minuti davanti all'eternità? Ma da dove viene questo? Tutto ciò, naturalmente, è solo uno sguardo, un'ombra sul volto. Dopo un po’, di solito sgombrano la strada. Ma ti può andar male: non è necessario che sia un boss della SCU, basta un ragazzino di quelli moderni su uno scooter. La reazione è esplicita, a voce, con gesti delle braccia e, infine, con posizionamento dello scooter sul cavalletto e lento procedere verso la tua vettura. Un forestiero qualunque potrebbe pensare di liberarsi con due ceffoni del ridicolomuccuso alto un metro e trenta. Non capirebbe, il poveretto, che da qualche parte ce ne sono venti di quei piraña, ora o dopo. Ma io l’ho imparato e di solito i cenni di scusa li faccio io. Qui, però, si parla di una situazione tutto sommato rara, che rientra nella casistica dei "pirati". Altra immagine ricorrente, quella del pirata della strada, anche qui film e polemiche all'infinito. Ma il Pirata, col traffico, non c’entra: episodico, criminale, fuori dal traffico: sarebbe come citare i rapinatori argomentando sulle code agli sportelli.
No, no, quello che fa imbestialire è il comportamento dei pacifici cittadini. Più pacifici sono e più piano vanno. Non è lentezza di prudenti, sia chiaro. Prudenti sono, anche, ma non si devono scambiare retaggi arcaici con la prudenza. Questa lentezza è la lentezza del traìno, il passo uguale della mula o del ciuccio, l'affidarsi a un robot che sente la strada di casa, che segue come rotaie i solchi nelle strade sterrate. A scuola (guida) le marce gliele hanno fatte cambiare con la forza ma nella vita vera le marce si riducono a due: la prima, che qui non è certo una marcia d’avvio da tre secondi e, appunto, la seconda. Non è che tirino la seconda parossisticamente come la prima. La tengono, tutto qua. Non giocano d’acceleratore per adeguarsi alle condizioni del traffico o all’avvicinarsi di un incrocio ma sospendono il piede nei pressi del minimo. Anche se hanno davanti un rettilineo sgombro per cento metri. Anche se stanno svoltando o incrociano una strada con diritto di precedenza. Anche se avvistano pedoni sulle strisce. Tanto vanno piano, loro. Anche agli stop: seconda, al minimo. Peggio che passare a centoventi col rosso. Ma loro sono prudenti: vanno piano.
Ebbene, esagero: molto spesso, qui, a ogni incrocio si rallenta, e talvolta in prima. Maggiore prudenza? No, curiosità. Occorre spiegare: a queste latitudini se sentite qualcuno dire faccio una passeggiata, non pensiate che intenda fare quattro passi. La velocità è sì quella del passo d’uomo (cinque chilometri ora all’incirca) ma le gambe si limitano a premere pedali. Qui si passeggia in macchina. In un paese che ha un chilometro di diametro si prende la macchina e si fa un giro, dopo pranzo, o prima di cena, così. Non è che vadano molto più piano di quando hanno una meta: solo che, appunto, rallentano fino a fermarsi a tutti gli incroci, anche quando hanno la precedenza. E guardano a destra e a sinistra. Non per avvistare eventuali veicoli: per controllare il prossimo, sia negli spostamenti personali, sia nell’evoluzione proprietaria: chi è che sta rifacendo il balcone? quel negozio è frequentato? ma lì non abitava l’ex moglie del geometra?
In paese queste passeggiate non cambiano di molto l’andamento generale del traffico. Ma nelle belle giornate, quando la passeggiata si estende sulle intercomunali l’effetto è più che notevole.
Fin qui restiamo nel campo di una dolce follia. Lentezza, svagatezza, ritmi blandi: ma è il Sud, no? Sono qualità del sud.
La rabbia monta in occasione delle precedenze. Non quelle che si prendono contro il codice, sono rare e poi non è prepotenza ma distrazione. E’ quando gli tocca che te le fanno girare. Perché se ce l’hanno se la tengono ben stretta, fino in fondo, fino alle estreme conseguenze. Non sanno cosa significa lasciar libero un incrocio quando davanti c’è una lunga fila di macchine ferme. Con la loro immodificabile lentezza vanno a fermarsi a dieci centimetri dalla vettura che precede. E ti guardano serafici. Non è per sfotterti ma per quel “controllo” di cui sopra. E se tu li guardi storti e torci la bocca a bestemmie e insulti, sembrano chiedersi il motivo di tanta maleducazione. Tu immagini che, procedendo così come procedono, praticamente fermi in questa sorta di confutazione del paradosso di Zenone, non abbiano difficoltà a darti precedenza, anche se non ti tocca. Scherzi, tocca a loro, anche se sono distanti cinquanta metri e, comunque, si fermeranno tra venti per una fila o uno sguardo nelle laterali. E continuano a rullare. Rullano, rullano, con lo sguardo fisso, ingobbiti e assenti. E tu avverti lo spessore degli strati di ovatta che avvolgono il loro cervello, che attutiscono, altro che airbag, tutti gli impulsi nervosi che giungono dagli organi di senso.
Tutto questo non è più tanto vero: ormai non è più così raro che qualcuno, io per esempio, dia delle precedenze impreviste. I beneficati non si illuminano più come fari dopo i dieci, quindici secondi necessari a convincersi che gliela stanno dando, non si sbracciano per tutta la sterzata: basta un’alzata di manina, un sorriso a livello occhi, e via.
C’è un atto di maleducazione automobilistica che non infastidisce granché i guidatori: quelli che suonano il clacson danno fastidio soprattutto al pedone e a chi è in casa. In queste case a un piano si tratta di un offesa notevole per le orecchie, specie d’estate, a finestre aperte.Questo colpo di clacson non ha nulla a che vedere con quello iroso di città. In città, anche se quasi mai usato per motivi di sicurezza (unico uso consentito) ha attenuanti: il colpo, anzi i cori di clacson sono scatenati dalla fretta e dallo stress, di fronte a intoppi, incertezze di guida, mancati sprint al semaforo. Non qui: qui è sempre per un saluto, per un richiamo. I più timorati e civili danno leggeri colpi, che pure, se il guidatore ha molti amici, non sono cosa di poco conto. I più tamarri possono dare due, tre colpi di tromba. Se il parente che lo zingaro sta “chiamando” non si affaccia subito, poi, meglio sarebbe essere sordi, specie se il chiamante è fermo, com’è d’uopo, in mezzo alla strada, e, dietro, qualcuno comincia a clacsonare contro l’autista. Per quanto riguarda gli antifurti che squillano a caso, invece, si è nella media nazionale.
E quella mattina ne suonavano due, e uno non era neanche di macchina, ma della posta, guasto ormai da settimane. Non sto cercando attenuanti, lo so che non ce ne sono. Non a sufficienza. Ma spiegarvi, questo solo.
Non avevo nessuna intenzione di passare ai fatti, io. Avevo solo bisogno di sfogarmi, urlare al tizio, alla strada e al cielo la mia insofferenza, la mia rabbia. E’ così che si fa per non farsi venire l’ulcera e il cancro, lo affermano ormai anche i miei colleghi. Poi me ne sarei risalito in macchina, che magari il tizio avrebbe capito e si sarebbe finalmente levato di mezzo. Chi se lo immaginava che quel tappo si sarebbe messo a spingere e che l’amico mi sarebbe venuto di fianco per tirarmi un pugno?
Potrei trovarne di attenuanti: che dopo una settimana di Clinica e di Studio a Roma il mio fine settimana qui, al paese, a casa con mia moglie, non lo passo a casa con mia moglie ma nella clinica di Brindisi. Che non c’è più una fine di settimana né un inizio, che non so bene quando comincia la mia settimana lavorativa, che i giorni liberi sono giorni di viaggio, che non ho mai tempo, che non sopporto di perdere tempo, che è anche per questo che ho preso l’essellecappa. Beh, non è vero, mi son sempre piaciute le sportive, le decappottabili in particolare. Mi piacciono le accelerazioni, mi fannosentire lo spostamento, la libertà. Ma mi piace soprattutto accelerare in curva invece di rallentare. E’ come raddrizzare la strada, velocizzarla, disintegrare gli ostacoli che ti mettono davanti, riguadagnare il tempo che ti vogliono far perdere. Però mia moglie aveva ragione anche lei a dirmi di prendere una bella monovolume, alta, che stai su, che respiri, che non senti di stare nel traffico. Perché dentro l’essellecappa, quando sei in una fila, quando sei a un incrocio, ti senti schiacciato. I veicoli davanti non sai quanti sono, non vedi l’intoppo, te lo immagini insuperabile. Ti senti chiuso tra muri, ti senti a terra, come nella Mini Cooper di tuo padre, quella vera, quella vecchia, che ti veniva di sollevare il culo per non farlo strisciare sulla carreggiata, che ti sembrava di correre di più perché quell’asfalto era così vicina che vedevi sfrecciare le strisce psichedeliche di Odissea nello spazio. Ma che appena rallentavi ti sentivi un nano, uno scarafaggio che quel camion avrebbe sicuramente schiacciato, senza neanche vederlo.
Se avessi comprato un bel macchinone un po’ più lento, ma alto, ampio, panoramico, non avrei sofferto quella claustrofobia, non mi sarei sentito oppresso da quegli sguardi ottusi, indifferenti, dall’alto. Non mi sarebbe sembrato di avere ancora i guanti, la mascherina, il camice (che te lo legano di dietro, come una camicia di forza). Non avrei avuto la necessità di sgusciare dall’essellecappa, dalla cintura di sicurezza, di verticalizzare il mio metro e novanta. Quelle quattro cazzate che ho urlato le avrei urlate da lassù, da sopra un Voyager.
di Elio Paoloni, che potrete apprezzare anche sui suoi blog https://eliopaoloni.jimdo.com; https://www.eliopaoloni.it